Tag: racconti

I nostri racconti

La classe Prima Triennale ha lavorato alla stesura di racconti a tema libero insieme all’insegnante di Lettere. Alcune di noi hanno scelto trame romantiche, altre hanno optato per storie gialle piene di brivido, altre ancora hanno preferito la fantascienza… Infine Mascia si è dedicata alla realizzazione di un pdf sfogliabile utilizzando Flipsnack. Ecco qualche pagina:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Clicca qui per leggere il pdf online e lasciaci un commento. Qual è il tuo racconto preferito?

Giallo, thriller, noir… I nostri racconti

Dopo aver letto in classe alcuni brani tratti da celebri libri gialli e noir, in Prima Triennale abbiamo provato a scrivere un racconto!

 

DELITTO A 190 METRI DI ALTEZZA

di Rita

Era una serata tranquilla, l’agente Smith e il suo collega Adam decisero di andare a cena fuori e partecipare all’inaugurazione di un nuovo ristorante.

Il proprietario era il signor Keller, un ricco imprenditore miliardario; era diventato molto noto grazie alla catena di ristoranti che aveva aperto in tutto il mondo.

Alle ore 20:00 il Signor Smith, il collega Adam e sua figlia Adele, si recarono al grattacielo più famoso di Tokyo, dove si svolgeva l’inaugurazione, una magnifica opera architettonica alta 190 m.

Il Signor Smith è americano. Si era trasferito a Tokyo 5 anni fa con la moglie, ma la signora Smith è sparita da 3 anni; di lei non si è mai saputo più nulla, mentre invece il signor Adam è divorziato dalla moglie, e nel fine settimana ha sua figlia Adele con sé. Adele è una studentessa del 4º anno, e non ha mai dato nessun tipo di problema ai genitori.

Quella sera tutti erano vestiti in modo molto elegante, il signor Keller era una persona molto apprezzata a Tokyo…

Alle 21:00 ebbe inizio un piccolo aperitivo, e il Signor Keller fece un discorso accompagnato da un brindisi.

Alle 22:00 l’assistente, nonché braccio destro del signor Keller, Fugiwara, fece accomodare tutti i presenti per poter brindare anche lui all’amico.

E dopo aver versato due bicchieri, uno per lui e un altro per Keller, disse:

“Questo brindisi lo faccio per te, amico mio, in nome di tanti altri giorni come questo.”

Tra un applauso e un altro si spensero le luci, e dopo pochi secondi di totale buio si riaccesero.

Appena si fece di nuovo luce, apparve una tragica visione:  il corpo del signor Keller era disteso a terra con un pugnale fra le scapole.

Il panico regnava sovrano e solo dopo l’arrivo della polizia e degli elicotteri, tornò un po’ di calma.

Tante pattuglie sorvegliavano il palazzo, nessuno poteva entrare o uscire, e gli elicotteri sorvolavano su tutta la zona.

Erano le 00:00, la polizia era arrivata alle 22:45, e i dubbi erano tanti.

Nessuno poteva sapere se l’assassino fosse scappato oppure no, il mistero aumentava ogni minuto che passava.

L’investigatore Smith e il suo collega Adam cercavano di capire qualcosa di quel tragico accaduto.

La bellissima figlia di Adam prese sonno su un divano poco vicino all’angolo bar, e Smith decise di interrogare alcune persone.

Nessuno di loro aveva a che fare con il signor Keller, pare che egli non avesse nessun nemico a Tokyo, eppure quella sera era stato assassinato…

Così Smith decise di interrogare l’assistente della vittima e disse:

“Signor Fugiwara, lei era il braccio destro del signor Keller, sa se avesse qualche nemico qui a Tokyo?”

Fugiwara con voce tremolante rispose: “No, ispettore, non che io sappia..”

L’assistente Adam alzandosi dal divano disse:

“Eppure l’hanno ucciso… Sarà una lunga notte.”

Alle ore 01:00 vennero mandate via molte persone già interrogate, ognuna di loro conosceva il signor Keller per essere una persona molto famosa e di animo buono, ma nessuna di loro aveva mai parlato con lui.

Quella stessa sera la polizia fece un’analisi sul coltello, ma non venne fuori nulla.

L’ispettore Smith diede ordine ad Adam di fare un’indagine sul signor Fugiwara perché sembrava un individuo sospetto… Molto sospetto.

Alle ore 03:00 stava ancora andando via gente, e poi accadde un fatto.

Il signor Fugiwara era sparito. L’ispettore Smith tramite la radio della polizia esclamò: “A tutte le unità di terra, controllate ogni uscita, il signor Fugiwara, il braccio destro del signor Keller, è sparito.”

All’improvviso venne avvistato da un cane della polizia: Fugiwara si era intrufolato in un passaggio segreto della cucina, in questo modo sarebbe uscito inosservato.

Nel frattempo, Adam, porta all’ispettore Smith ciò che ha trovato sul signor Keller.

“Ispettore! È urgente! A quanto pare la vittima era rimasta orfana di madre e padre ed aveva ereditato la fabbrica di famiglia. Però era uno chef, e per questo ha aperto tantissimi ristoranti in giro per il mondo.”

L’investigatore Smith rispose: “Be’, ecco spiegato perché era miliardario, ma adesso parlami di Fugiwara.”

Adam riprese parola e disse: “E’ questo il punto, il signor Fugiwara era il braccio destro del padre del signor Keller! Fu messo alle strette senza poter agire in nessun modo, perché il signor Imar Keller si prese la parte del signor Fugiwara.

Da allora sono passati 30 anni, e per 30 anni il signor Keller è cresciuto con Fugiwara.”

Alla fine del discorso, Fugiwara fu portato dall’ispettore.

Smith iniziò a fare domande al presunto assassino. Chiese: “Va bene, signor Fugiwara, adesso mi dica, perché l’ha ucciso?”

Il presunto assassino rispose: “L’ho fatto per la mia famiglia! Suo padre era mio socio in affari più di 30 anni fa. Avevamo il 50% entrambi, ma per via delle sue grandi conoscenze e per la sua grandissima  sete di potere, mi fece fuori.

Ebbe di diritto il mio 50%, cioè la parte che mi spettava, ed io con una moglie e un figlio rimasi per strada.”

L’ispettore Smith ribatté e rispose: “E così per 30 anni ha badato ad un piccolo orfano miliardario di 10 anni senza aver nessun interesse per la sua ricchezza e i suoi beni… Gli avete fatto da tutore; avete fatto di tutto per fargli accumulare il doppio di quello che Keller già possedeva, e poi l’avete ucciso.

Non avendo nessun familiare, sarebbero passate tutte le sue ricchezze e tutti i suoi beni nelle vostre mani dalla sera alla mattina, visto che siete voi il suo braccio destro, nonché complice in ogni sua mossa.”

Adam, con un tono di voce molto sicuro , disse: “Direi che il caso è chiuso, signor Fugiwara, lei è in arresto, portatelo via.”

L’ispettore, rivolgendosi al suo braccio destro, disse: “Guarda l’orario Adam, sono le 5, la notte è volata.”

Adam rispose: ”E’ vero signore, è stata una notte molto movimentata e piena di colpi di scena.”

L’ispettore disse: “Già amico mio, il mondo è sempre pieno di sorprese.”

E così il signor Fugiwara venne arrestato, e ovviamente non ebbe nulla, tutti i beni del signor Keller andarono a case di beneficenza… a persone che ne avevano davvero bisogno.

 

     Notte di terrore a Milano

di Valentina

Michelle è una ragazza solare, dolce e gentile. Si è trasferita da poco a Milano con i genitori e il fratello maggiore Mirko.

Era la mattina del 5 maggio, e come tutte le mattine, Michelle si era alzata dal letto per andare a scuola.

Davanti al cancello del liceo, incontrò la sua migliore amica Beatrice, che appena la vide le saltò in collo e cominciò a cantare “tanti auguri a te…”, mettendola in imbarazzo davanti a tutta la scuola.

Poco dopo si sentì toccare la spalla e si voltò, vide Alessandro, il suo ragazzo, che in mano aveva un mazzo di rose rosse e  una lettera. Al suo sguardo iniziò a sorridere e divenne tutta rossa.

Dopo scuola andò a casa e si preparò per andare a ballare con Beatrice, Alessandro e suo fratello Mirko. Qualche ora dopo entrarono dentro la discoteca e ballarono, cantarono fino a perdere la concezione del tempo. Michelle si allontanò dal suo gruppo per qualche minuto e successe l’impossibile…

I ragazzi non vedendola si preoccuparono, per di più non rispondeva al telefono. La cercarono per tutta la città e non la trovarono, fino a quando un urlo straziante richiamò la loro attenzione… Si voltarono e videro una signora che scoppiò in lacrime alla vista del corpo senza vita  di una ragazza così giovane. Mirko riconobbe la sorella… rimase lì a guardarla attonito,  senza dire niente, dentro i suoi occhi c’era il vuoto, non sapeva cosa pensare, era come se il mondo non avesse avuto più un senso, come se lui si fosse spento insieme a sua sorella. Gli amici rimasero sbigottiti e iniziarono a piangere.

La signora, dopo essersi ripresa, chiamò la polizia e raccontò l’accaduto. Dopo 10 minuti arrivò l’ispettore Johnson e guardò con desolazione la scena del crimine.

Si avvicinò a Mirko e gli chiese: “Quanti anni aveva… tua… sorella?”  Senza distogliere lo sguardo dal corpo rispose: “Oggi era il suo sedicesimo compleanno… era elettrizzata all’idea di passare una serata con noi… e be’, non è finita nel modo in cui ci aspettavamo.”  L’ispettore gli fece l’ultima domanda: “Dov’eri quando è morta tua sorella?”

Lo guardò negli occhi e rispose: “Eravamo in discoteca,  lei disse che si sarebbe allontanata per andare in bagno… Dopo non l’ho più vista”

Johnson capì che la scena del crimine era stata manomessa… La ragazza era stata uccisa nel bagno e per non far rinvenire tracce, l’assassino aveva trascinato il corpo due isolati oltre il luogo del delitto.

La sera, l’ispettore Jhonson, mentre era a casa a rilassarsi, leggeva il giornale e gli cadde l’occhio su quello che gli parve un indizio molto importante: Marco Malaspina, un ragazzo con problemi psichici,  era scappato dal manicomio, e girava per la città ammazzando le persone. L’ispettore scattò in piedi e andò alla centrale di polizia per fare ulteriori ricerche.

Il giorno dopo fece sapere la notizia alla famiglia della vittima e promise loro  che lo avrebbe trovato e arrestato. L’ispettore andò in giro per la città alla ricerca di questo tristemente celebre killer, ormai su tutti i telegiornali.

Dopo aver girato in mezzo a tanti quartieri, lo vide e di corsa prese la pistola e gliela  puntò alla fronte fino a quando, tutto fiero di se stesso, urlò: “In ginocchio! Mani dietro la testa!”

Dopo l’arresto di Marco Malaspina, non si ebbero più sue notizie.

Il manicomio di  Pennhurst

di Nicole

Martedì 23 novembre 1908 

Era un giorno molto strano a  SPRING CITY. Ero una nuova arrivata in questa piccola cittadina, tutti mi guardavano sospettosamente come se fossi un’intrusa. Ricevetti una chiamata dall’ispettore GEORGE GOMEZ,  mi  disse che c’era un nuovo caso urgente e stimolante. Avrei dovuto investigare sulla  signorina  ELISABETH LOPEZ. Mi occupai del caso ogni giorno da quel giorno.  Trovai un documento  molto vecchio, risaliva al 1900 e c’era scritto che la signorina Lopez era una donna astuta e molto pericolosa, con seri problemi psichici. Aveva ucciso il marito,  SEBASTIAN RULLI, con  5 colpi alla testa e una ferita da arma da fuoco al cuore, ma quello che non riuscivo a capire era dove si trovasse adesso questa donna, ero nella città giusta? Mi feci  molte domande. Presi il telefono e chiamai GEORGE NEW,  il sindaco della  cittadina,  gli chiesi:  “Ha mai notato qualcosa di strano  negli ultimi giorni?  Conosce una certa ELISABETH GOMEZ ? Rispose:  “Sì, ho sentito parlare di questa donna dalla signorina  LINDA BROWN,  la direttrice  del terribile manicomio di PENNHURST. In questi ultimi anni ha ucciso ben 30 persone. Se vuole andare a visitarlo, si trova a 40 minuti da SPRING CITY”.

 

Mercoledì  24 novembre, 1908

Mi alzai in fretta e presi il primo treno che mi portasse al manicomio di PENNHURST, per investigare su ELISABETH LOPEZ.

40 minuti dopo…

…Una volta arrivata mi ritrovai in una zona sperduta piena di insetti e soprattutto… c’era una puzza incredibile. Camminai per 15 minuti  fino ad arrivare alla porta  principale del manicomio, appena aprii la porta c’era un assembramento di persone, sembrava una giungla. Domandai a una infermiera dove potessi  trovare la signorina LINDA BROWN. Mi accompagnò fino ad arrivare dalla signorina LINDA. Percorremmo il lungo corridoio e su ogni porta c’erano antiche tracce di sangue. Tutto ciò era molto sospetto. Presi appunti su tutte le cose bizzarre che vedevo   nei corridoi. Arrivammo nel corridoio numero 45. L’infermiera mi disse: “Cammini fino in fondo  e giri a sinistra e  poi a destra e troverà una porta nera. Lì troverà la direttrice. Prima di entrare, suoni alla porta, arrivederci”.  Bussai e mi accolse la  direttrice, seduta su una poltrona di pelle nera. Mi guardava  sospettosamente e avevo  molta paura. Mi disse: “Si sieda, signorina, come si chiama?”  “Mi chiamo ANGELIQUE BOLLER, sono un’investigatrice. Sono venuta a risolvere una caso che è rimasto insoluto per molti anni…. “

“A cosa le servo io, ANGELIQUE BOLLER?”

“So che lei ha conosciuto ELISABETH LOPEZ, la grandissima criminale di  SPRING CITY, scomparsa da 8 anni. Ho bisogno che lei mi dica tutto su questa donna”.   “Ascolti molto bene, le dirò tutto,  ascolti attentamente e prenda appunti…”

ELISABETH LOPEZ  è mia sorella, la polizia ci cercava  e un tempo la nostra vita era piena di problemi. Ci nascondemmo in  Colombia  e uccidemmo più di 50 persone. Lo abbiamo fatto per denaro e per la droga. Quando abbiamo trovato ostacoli, abbiamo fatto fuori i nemici. Ricordo che ELISABETH andò in  PERU  per un incarico. Lì incontrò un modello, SEBASTIAN RULLI, era un uomo meraviglioso, ma lui non sapeva nulla della sua vita. Lei voleva avere figlie, una famiglia, ma  con la vita che faceva non poteva  rischiare. Passati 5 anni, mi mandò una foto di due belle bambine, erano bellissime e dolci, io non potevo vederle perché ero nascosta.

Passarono dei mesi e suo marito scoprì la vita che aveva mia sorella e che in verità non era una donna con un passato rispettabile.  Lui decise di andarsene. Mia sorella  prese la pistola e lo uccise, scappò con le bambine e non seppi niente di lei.  Ho saputo da poco che adesso si trova qui a SPRING CITY, ma non so dove. L’ho cercata ma niente, le bambine sono in grande pericolo con lei, quindi se vuole la posso aiutare. Mia sorella è molto pericolosa, siamo cresciute da sole perché nostra madre  ci abbandonò alla sorte. Mio padre morì  e dovevamo mantenerci, così cominciammo  con la droga. Io ora scontato la mia pena e dirigo questo manicomio.” Presi appunti e dissi a Linda che avrei fatto del mio meglio per trovarla .

Ultimo giorno del caso

Il caso doveva essere risolto entro oggi e ancora non  avevo trovato ELISABETH. Io  e la mia squadra  ci mettemmo a lavorare. Dopo alcuni importanti indizi trovammo la casa di ELISABETH. Le bambine erano sul terrazzo,  voleva  ucciderle e scappare.  Era completamente folle. Salì  sul terrazzo con Linda,  ELISABETH le disse: “SORELLA, ERAVAMO UNITE UN TEMPO, AVEVAMO TUTTI I SOLDI DEL MONDO E TU MI RIPAGHI  PORTANDO LA POLIZIA, NO, NO!” Le puntò la pistola alla testa e le sparò. Gettò le bambine dal terrazzo, ma non sapeva che lì sotto era stato disposto  un materasso. Le bambine si salvarono, ELISABETH scappò, non riuscii a prenderla, era così veloce e astuta che neanche il mio TEAM  riuscii a prenderla. Era scappata di nuovo e il caso di SABASTIAN RULLI  rimase senza che fosse fatta giustizia. Avvisammo tutti, perché ci contattassero in caso di informazioni.  Linda mi chiamò in ufficio e mi disse che sua sorella si trovava al manicomio… Uff, finalmente ora potrò risolvere il caso di SEBASTIAN RULLI .

Settembre 21, 1950

Passarono molti anni e il caso fu  risolto. Io ritornai a casa dalla mia famiglia. Smisi di essere investigatrice, era un lavoro troppo  pesante per me.  Sentii  bussare alla porta, aprii e mi ritrovai  davanti  ELISABETH LOPEZ. ”SONO RITORNATA. BANG BANG!“

FURONO LE ULTIME PAROLE DI ANGELIQUE.  LA SUA MORTE  FU ASPRA E CRUDELE .  IL 25 SETTEMBRE 1950 FU SEPPELLITA. LA SIGNORINA ELISABETH  LOPEZ E’ ANCORA IN QUESTO PAESE E UCCIDE PERSONE SENZA MOTIVO .

 

 

 

 

 

Il racconto a scuola: l’Antica Grecia

Insieme all’insegnante di Lettere, la prima Triennale quest’anno ha scritto diversi racconti ispirati all’Antica Grecia. Leggi la storia inventata da Rita e lascia un commento!

Temple_of_Hephaestus_in_Athens_02.1

Il piano degli dei conquistatori

Tanto tempo fa, esistevano molti dei, ma tra quelli più temuti vi erano gli dei dell’Olimpo.
L’Olimpo era la sede dove tutti gli dei vivevano in pace tra loro; tra questi c’era Zeus, il padre degli dei, degli uomini della terra e re dell’Olimpo.
Zeus aveva una moglie, Era, la protettrice di tutte le donne.
Altri dei vivevano con loro: Atena, dea della conoscenza; Afrodite, dea della bellezza; Poseidone, dio del mare…
Ogni città della Grecia aveva il proprio dio protettore, un dio da venerare e pregare.
Un giorno, Era, la moglie di Zeus, disse a suo marito: ”Mio re, sulla terra stanno succedendo frequenti episodi di maremoto e questo va avanti da diverse settimane”.
Zeus, voltandosi verso di lei, rispose: “Chiama Poseidone e digli che devo parlare urgentemente con lui”.
Poche ore dopo Poseidone arrivò sull’Olimpo e disse a Zeus: “Dimmi mio re, c’è qualcosa che non va?”.
Zeus, guardandolo bene negli occhi, rispose: “Mio caro Poseidone, sapresti dirmi perché ultimamente, sulla terra, avvengono così di frequente turbolenze marine?”.
Poseidone, sorridendo e con voce arrogante, disse: “Perché è ora che io mi riprenda ciò che mi spetta”.
Gli altri dei rimasero sorpresi.
Così Zeus ordinò alle guardie di portare Poseidone in una cella molto sorvegliata.
Nemmeno il tempo di dirigerlo verso la cella, che lui scatenò un’immensa onda anomala che travolse tutti i presenti.
Poseidone intrappolò tutti congelando loro mani e gambe.
Lui, essendo il dio del mare, con i suoi poteri poteva alterare lo stato liquido e così, poteva anche congelare l’acqua.
D’altronde era uno degli dei più potenti e riusciva a controllare uno dei fondamentali elementi naturali.
Il dio del mare, voltandosi, disse: “Tu non vieni con me?”; a quel punto Ares si fece avanti e seguì Poseidone.

Ares era il dio della guerra, nonché figlio di Zeus ed Era.
Passarono i giorni e gli attacchi di maremoto si fecero sempre più frequenti.
Lo scopo di Poseidone era far accadere sulla terra una immensa inondazione.
Zeus decise di affrontare personalmente il problema.
Fece perlustrare la terra dalle sue guardie, dicendo loro: ”Trovate il nascondiglio di Poseidone, e appena lo trovate, fatemi sapere”.
Le guardie di Zeus scesero fra gli uomini e appena atterrarono videro un enorme castello di ghiaccio; quello era il punto dove tutti gli dei atterravano sulla terra e proprio lì, Poseidone decise di innalzare il suo castello.
Zeus lo venne a sapere e andò subito dal dio del mare.
Appena si videro, i loro sguardi si incrociarono e subito dopo due potenti attacchi si scatenarono causando un’onda d’urto gigantesca.
Il potente fulmine di Zeus si scontrò con la potente onda anomala di Poseidone. Tutto il terreno circostante era ormai bagnato da un’intensa onda elettrizzata.
I due continuarono a lanciarsi potenti attacchi con i loro immensi poteri; Zeus all’improvviso venne colpito alle spalle e voltandosi vide il volto di suo figlio Ares.
Deluso, decise di tornare sull’Olimpo.
Appena giunse a destinazione vide qualcuno che attirò la sua attenzione: era la bellissima Afrodite con una guardia. Con occhio ben attento e orecchio ben aperto, vide e sentì Afrodite prendere il controllo mentale della guardia; Afrodite ordinò di condurre da lei tutto l’esercito delle guardie.
Mentre quest’ultimo aspettava, Zeus entrò e disse: “Mia cara e sensuale Afrodite, prima che la mia rabbia si scateni su di te, hai qualcosa da dirmi?”. Afrodite spiegò i suoi piani per conquistare l’Olimpo e disse: “Caro re, sempre se così posso ancora chiamarti, è stato facile persuadere la mente di due dei tuoi migliori uomini, ossia, i tuoi figli Ares e Poseidone. Personalmente credevo che sarebbe stato molto più difficile mettere in atto il mio piano, ma con l’aiuto di quei due poveri ingenui, far cadere il tuo regno sotto al mio dominio sarà un gioco da ragazzi”.
Zeus rimase in silenzio a sentire tali parole.
In quel momento entrarono Ares e Poseidone.
Questi ultimi furono anche raggiunti dal resto delle guardie; Afrodite con molta facilità prese il controllo di quasi tutte loro e fu così che la battaglia ebbe inizio.
Lo scontro fu intenso e Zeus fu messo in grande difficoltà: vide cadere ai piedi di Afrodite, poco a poco, le poche guardie che lo stavano aiutando.
Il re dell’Olimpo, preso da una rabbia immensa, utilizzò tutte le sue poche forze rimanenti per creare un ultimo e potente attacco: generò un fulmine di proporzioni immense che a sua volta esplose in tanti altri fulmini, colpendo mortalmente Afrodite.
Quest’ultima cadde a terra, facendo così svanire il controllo mentale su tutte le persone che erano presenti.
Ares e Poseidone si guardarono intorno con aria molto stupita chiedendo spiegazioni dell’accaduto a Zeus.
Il padre degli dei spiegò tutto ciò che era successo.
I due caddero in ginocchio chiedendo perdono.
Zeus, con la calma di un vero dio, mise le sue mani sulle spalle dei due, silenziosamente annuì accettando le loro scuse, e andò via.
I giorni passarono e sulla terra le persone cercavano di ricostruire la parte più alta della Grecia.
Ritornò tutto alla tranquillità e l’incubo che inflisse Afrodite rimase solo una leggenda.

Un nuovo caso per Giulia

di Pastorini Giulia

 

Mi ritrovai ancora una volta sulla mia poltrona turchese sorseggiando una tazza di thè al limone, osservando attentamente fuori dalla finestra i fiocchi di neve che cadevano sopra la mia macchina nera e che creavano un interessante contrasto. Me ne stavo vicino al camino, al caldo sotto una coperta di lana color tiffany. A un tratto la mia gattina Serafina attirò la mia attenzione giocando con il filo del tappeto, che appunto si era sfilato. Giusto poco dopo aver visto quella scena, il telefono squillò, così mi dovetti alzare a malincuore, spostai la coda di Serafina. Non volevo sgridarla, dato che la vedevo impegnata a cercare di togliere quel filo dal tappeto. Mi avviai nel corridoio verso il telefono che non smetteva più di squillare, pensai dentro di me a chi poteva essere. Arrivai finalmente al mobiletto dove era appoggiato il telefono e alzai la cornetta.

Dalla voce sembrava una persona che aveva appena visto un fantasma, era agitata, non si sentivano bene le sue parole, ma capii che si trattava di qualcosa di grave. Cercai di fargli qualche domanda per capire chi fosse e dove abitasse ma fu tutto inutile.

Buttai giù la cornetta e in fretta e furia chiamai la centrale di polizia dove lavoravo, detti loro il numero di telefono della persona che mi aveva chiamato, e in meno di un minuto riuscirono a rintracciarlo.

Andai in camera, mi misi la divisa più velocemente possibile, salutai la mia gattina, e nonostante la neve riuscii a far partire la macchina e andare in fretta alla centrale. Arrivai a destinazione con la camicia mezza abbottonata e una scarpa senza i lacci, che si erano sfilati rimanendo chiusi nella portiera della macchina, ma nonostante questo disordine ero pronto. Andai dagli altri poliziotti, e mi dettero tutte le informazioni che erano riusciti a raccogliere. Si trattava di una certa Lady Victoria trovata morta. Si sospettava che fosse un omicidio. La vittima era stata trovata in cucina con ben 50 coltellate in tutto il corpo e con una corda legata attorno il collo. La persona che la aveva trovata in queste condizioni era appunto la persona che mi aveva chiamato, ovvero il suo maggiordomo, Louis Tomlinson, che poco dopo aver telefonato era svenuto. Presi la macchina insieme al mio caro amico e anche bravissimo poliziotto Justin Brown e andammo sulla scena del crimine, una ricca casa di campagna.

Scendemmo dalla macchina dopo aver discusso a lungo su chi potesse essere stato a fare una cosa così atroce. Con un bel respiro entrammo e la visione fu scioccante… la crudeltà. La povera Lady Victoria in terra in una pozza di sangue. Non aveva più le unghie delle mani, perché aveva lottato per la sua vita. C’era sangue da tutte le parti, anche sul soffitto e le unghie furono ritrovate persino nella fessura di un cassetto. Lady Victoria aveva una mano quasi staccata dalle coltellate.

Vennero i medici dell’obitorio, le chiusero gli occhi verdi, che avevano perso la loro lucentezza, e la coprirono con un telo bianco, ma non servì a molto dato che poco dopo il telo divenne rosso, intriso da tutto quel sangue che ancora fuoriusciva.

Con tanta pazienza e voglia di fare ci mettemmo subito ad investigare.

Nel frattempo riuscirono a risvegliare il maggiordomo Louis. Dopo essersi ripreso andò ad avvisare tutti i servitori e i familiari tra cui il marito Howard Malik, la cameriera Taylor Shaw, il giardiniere Michael Horan, la sorella della vittima Eleonor Mendez e la migliore amica della vittima, Kayla Zedda.

Rimasero scioccate anche loro dalla notizia e chiesero giustizia ai poliziotti. La polizia e tutti gli investigatori cominciarono a fare domande alle persone che conoscevano di più la vittima. Cominciarono da Louis Tomlison, il maggiordomo.

Non disse molto, solo che l’aveva trovata morta in cucina e che poco dopo era svenuto. I poliziotti non pensarono che fosse stato lui per due semplici motivi: il primo era il suo gran cuore, per il quale era noto a tutti, il secondo era che non avrebbe mai ucciso in quella maniera efferata. Howard Malik, il marito, il maggiore sospettato, tirò subito su la testa senza neanche una lacrima. Il viso era completamente asciutto come se non avesse mai pianto. La cameriera Taylor Shaw rimase immobile, non batté nemmeno un ciglio, ma grazie all’intervento di una psichiatra riuscì a dire che il marito e Lady Victoria litigavano spesso per sciocchezze. Il giardiniere Michael Horan quel giorno non c’era, e a dire la verità mancava da una settimana circa, perché aveva problemi in famiglia. La sorella della vittima Eleonor Mendez, sapeva cosa stesse passando la sorella col marito, e disse con certezza che era a conoscenza di chi fosse stato… ma rimase zitta.

La migliore amica Kayla Zedda, aveva anche lei un’idea di chi potesse essere stato ma rimase zitta, e si mise vicino a Eleonor a confabulare.

Il poliziotto, dopo aver sentito tutte le versioni dei familiari e testimoni, incominciò a elaborare chi potesse essere stato, anche se era piuttosto evidente. Il poliziotto decise di aspettare l’analisi delle impronte digitali e di tutte le altre tracce del dna. Pochi giorni dopo arrivò il risultato e in effetti il dna non era solo quello della povera Lady Victoria, ma anche di un’altra persona sconosciuta, che non era della famiglia.

Cominciarono le ricerche per trovare l’assassino, e venne fuori il nome di un certo Liam Pain, molto conosciuto nella zona per la sua cattiva fama, già stato in carcere parecchie volte. Era stato rilasciato con cauzione da circa una settimana, ma era stata una pessima idea… cercarono di rintracciarlo: Liam Pain, età 43 anni, corporatura robusta, capelli neri, occhi sul marroncino. Lo ritrovarono in un angolo in una strada chiusa per lavori in corso ormai da mesi. Lo trovarono in uno stato pietoso: il colore della pelle era giallastro e gli occhi erano rossi con tutti i capillari scoppiati, sulla maglietta si potevano notare tracce di sangue. L’uomo era incosciente e a malapena si reggeva in piedi, notammo che aveva i pantaloni strappati e sporchi di sangue.

Chiamarono un’ambulanza e poco dopo cercarono di curarlo al meglio, anche se ormai si poteva fare poco.

I poliziotti vedendo che Liam stava per morire cercarono di passare al sodo e farlo parlare. Le poche parole che disse furono: “ L’ho uccisa io, la amavo troppo, e non volevo che continuasse la relazione con il marito, l’ho uccisa così staremo per sempre insieme su nel cielo”.

Chiuse gli occhi e se ne andò verso il cielo anche lui.

Il caso fu chiuso… un altro poliziotto disse: “Perché allora tutte le persone della casa avevano incolpato il marito?”

Lo stesso poliziotto rispose: “Paura, solo per paura di morire anche loro, sapevano chi era stato ma avevano paura. Il marito soffriva in silenzio, sapeva che prima o poi sarebbe finita così.”

Il caso fu chiuso con tanta sofferenza e tanta voglia che tutto questo non fosse mai successo. Cercammo di incoraggiare i familiari, e esausti tornammo a casa, contenti di aver risolto il caso.

Lady Victoria rimarrà sempre nel cuore di tutti.

Ritornai a casa e l’unica cosa che feci fu tornare dalla mia gattina Serafina, raccogliere i lacci delle scarpe nella portiera e sedermi su una sedia per raccontare il caso alla mia famiglia.

Voglio guardare con gli occhi di chi non vede 

di Jillian Mallegni

Prima settimana di Università, fin qui tutto bene. Il mio unico problema è che non sono ancora riuscito a memorizzare come sono distribuite le aule.
Per questo sono fuori dalla mia stanza appoggiato allo stipite. Aspetto Johnny, il mio compagno di stanza. Diciamo che è una persona un po’ ritardataria, anzi, un po’ tanto. Ad ogni modo, non vedo l’ora di cominciare come si deve il mio percorso di studi. Potrò sembrare un secchione, la realtà è che ho un grande bisogno di sentirmi utile e aiutare le persone.
Dopo i miei continui lamenti, Johnny si degna di uscire dalla stanza.
-Dai, non ci ho messo così tanto.- sdrammatizza. Lo guardo male.
-Non guardarmi così, Luke, lo sai che mi fai paura.-
-Prima o poi troveranno il tuo cadavere sepolto da qualche parte.-
-E il tuo con il mio. Non potresti continuare a vivere senza di me. – afferma convinto.
Sollevo  il sopracciglio e chiudo la porta con troppa forza.
Percorriamo vari corridoi, mentre il mio cervello continua a creare una mappa dell’università. Dopo i racconti di questo rompipalle, finalmente posso entrare nella mia aula.

Ci incontriamo a pranzo nella mensa e con Johnny ci sono Ashley e Robert, ci sediamo a  un tavolo in fondo alla sala dove c’è un po’ meno caos. Mentre faccio finta di ascoltare i miei amici, perso nei miei pensieri, noto un ragazzo vestito di nero che porta un paio di occhiali e tiene un bastone in una mano.
Ashley nota che non sto ascoltando nemmeno un parola, quindi si volta verso il ragazzo che ha attirato la mia attenzione. Fa un sorriso e si alza incamminandosi verso di lui, lo prende a braccetto e lo porta al tavolo.
-Chi c’è? –
-Allora, alla tua destra c’è Johnny, Robert davanti a te e accanto a lui la piccola matricola, Luke. –
-Ehi, sono il più alto qua, e poi piccola matricola suona male.- metto il broncio come i bambini e tutti tranne il ragazzo del quale non conosco ancora il nome si mettono a ridere.
Finisco di mangiare e dopo aver salutato tutti mi incammino verso la mia stanza.
Apro velocemente la porta e me la chiudo dietro con un calcio. Ho cominciato da poco e sono già sommerso di cose da studiare. Le mie lezioni pomeridiane cominciano alle tre e mezza e ho poco più di un’ora per portarmi avanti con lo studio.

Esco dall’ultima lezione alle sei e mezza, sono stanco morto.
Vado direttamente in camera nella speranza di potermi riposare un pochino per poi cominciare a studiare di nuovo in santa pace. Il mio desiderio viene infranto appena mi avvicino alla mia camera e sento il rumore della musica uscire a volume troppo alto.
Entro e nella stanza ci sono Johnny e i suo amici del quarto anno, stanno fumando, l’odore dolce della cannabis mi invade le narici.
Abbasso di colpo la musica e tutti si lamentano.
-Calma, ora me ne vado. Johnny, volevo solo dirti che mangio fuori e torno tardi, se ci sono problemi chiamami.-
-Che dolce che sei, peccato che non sono gay, ti bacerei in questo momento.-
-Sì, dai, ciao bel principe.-
-Oh sì, ci sposeremo.-
Rimetto il volume della  musica al massimo e dopo aver lasciato qualche libro e averne presi altri, esco lasciando quei pazzi a ridere.
Il ristorante dista una decina di minuti dall’università, dopo penso che andrò al parco a studiare.
Dopo aver ritirato la mia ordinazione mi dirigo lentamente verso il parco. Mi fermo ad un semaforo mentre aspetto che torni verde.
-Cosa ci fai a quest’ora in giro, Luke? Non è tardi per una piccola matricola?-
Mi spavento e quando mi volto vedo Zackary. Alla fine ho scoperto il suo nome.
-Mi hai fatto spaventare, Zackary. Come facevi a sapere che ero io?-
Sono abbastanza curioso, cioè cavolo, non ho neppure parlato.
-Hai un odore particolare.-
-Cosa?-  Ma è serio?
-È verde, dobbiamo attraversare.-
Attraversiamo in silenzio.
-Io vado a al parco, devo studiare.-
-Pure io vado al parco.-
Percorriamo il tragitto fino al parco in completo silenzio e mi ritrovo a seguire Zackary mentre cammina come se davvero riuscisse a vedere. Dopo aver percorso il sentiero si ferma a un tavolo da picnic.
-Io di solito mi fermo qua, se vuoi puoi stare con me. Sennò puoi anche cambiare tavolo, fai come preferisci.-
-No, ti faccio compagnia.-
Ci sediamo ed entrambi cominciamo a fare quello che ci spetta. Comincio a mangiare piano mentre alterno un boccone di cibo a un pezzo del testo da studiare. È strano vedere un ragazzo alle sette di sera con gli occhiali da sole. Mi fermo qualche secondo a guadarlo, è buffo. Il capelli mossi scuri gli cadono sulla fronte, quella faccia concentrata e la testa china come se stesse veramente leggendo con gli occhi, solo quel dito lo inganna. Un semplice ragazzo che sta in un parco a studiare, con il semplice particolare che legge con un dito.
-Hai finito di guardarmi?-
-Cosa? Come facevi a sapere che ti stavo guardando?-
-Semplice. Tu stai mangiando, leggendo e scrivendo su un quaderno, o stai facendo qualcosa con la matita. Ad un certo punto hai smesso di masticare e il rumore della matita è cessato. Presumo che tu mi stia guardando visto che il parco è abbastanza vuoto a quest’ora e da questo lato, dimmi se sbaglio. Io sono una persona nuova da conoscere e il fatto che sono cieco ispira di più la tua curiosità, mi sembri un ragazzo intelligente, sì, mi ispiri fiducia, ma se vuoi usarmi come un giocattolo non ci sto.-
-Cavolo, sei molto intuitivo. Scusa se mi sono soffermato a guardarti per troppo tempo, non volevo darti un’impressione sbagliata. –
-Posso guardarti, Luke?-
Non riesco a capire la sua domanda, e il motivo per il quale l’ha fatta proprio in questo momento, ma gli rispondo di sì, così si alza e passo passo si avvicina e si siede vicino a me. Siamo uno di fronte all’altro. Alza quasi titubante il braccio e cerca il mio viso. Appoggia i polpastrelli alla mia guancia. Dopo aver sfiorato quella piccola parte, appoggia pure l’altra mano  sul mio viso e comincia ad analizzare ogni singolo millimetro del mio volto.
Lascia cadere le mani lungo i fianchi, si alza e dopo aver raccolto tutte le sue cose se ne va lasciandomi con un grazie e con una buonanotte.
Sto riflettendo molto su tutto quello che mi è successo in questi pochi minuti. Voglio conoscere meglio Zackary e riuscire a trovare un modo per ridargli quello che ha perso.
Voglio diventare i suoi occhi, un modo per vedere il mondo.

Nei giorni, le settimane e i mesi a seguire cerco di imparare tutto quello che posso da lui.
Le persone cieche riescono a vedere le cose in modo completamente diverso dal nostro. Vedono le cose profonde, non si fermano all’apparenza. Riescono a percepire ogni singola inclinazione della voce, il cambio dello stato d’animo o come bisogna comportarsi in ogni singolo momento. Almeno Zacky è fatto così.
Notano le piccole cose. Le cose essenziali per tutto.
Io volevo diventare come loro.
Voglio riuscire a  vedere il mondo con gli occhi di chi non vede.
Così conobbi un mondo completamente diverso.

-Come hai perso la vista?-
Alza un sopracciglio e poi vedo per un millisecondo gli angoli della sua bocca andare verso l’alto.
-Stavo aspettando questa domanda da tempo. Devo dire che non mi aspettavo ci avresti messo così tanto per farmela. Ad ogni modo, se ti stai chiedendo se sono cieco dalla nascita, no. Ho perso la vista due anni fa. Anzi ad essere corretti, quasi tre anni fa. Il distacco della retina ha causato la mia cecità. Ce ne siamo accorti troppo tardi e non c’è stato nulla da fare.-
-E come descriveresti il cambiamento che hai dovuto affrontare da vedente a non vedente?-
-Stai lavorando ancora al giornale della scuola?-
-Sì.- non so se si arrabbierà, ma sapere le cose direttamente da lui potrebbe rendere il mio pezzo unico.
-Potevi dirmelo subito. Allora, con il pezzo diventerò famoso?-
L’ha presa bene, dai.
-Mi aiuterai?-
-Certo, mio caro amico reporter.-
-Allora riesci a raccontarmi meglio la tua storia? Non voglio sapere come hai perso la vista. La storia della tua vita. Parlami di Zacky.- accendo il registratore per non perdere neppure una parola.
-Okay, allora, da cosa cominciare? Ho due fratelli, un mamma bellissima e un padre troppo occupato a lavorare. Ho 24 anni e anche se sono cieco, e può suonare strano, studio arte all’università. Ero molto bravo a disegnare, soprattutto a fare ritratti. Ora principalmente mi sto concentrando a studiare la storia dell’arte, non posso più disegnare come facevo prima. Creerei solo figure astratte che non rispecchiano per niente la mia personalità. Sono una persona precisa e amo l’ordine. Questo fu un punto a mio favore quando persi la vista. Essendo un persona ordinata sono sempre riuscito ad orientami e non ho avuto problemi per quanto riguarda la mia stanza, i corridoi e le aule dell’università, non è stato difficile imparare le distanze tra i  banchi e le sedie e il resto. Volevo cambiare il mio ambito di studi, non pensavo che avrei potuto essere un artista senza riuscire a vedere, ma mi sbagliavo. Il mio professore di arte mi fece capire che un artista cieco è raro e che se volevo far conoscere le mie opere dovevo andare avanti e non fermarmi a questa difficoltà, ma, anzi, sfruttare la cosa a mio vantaggio. Così nella mia testa si presentò l’idea di poter insegnare l’arte come la vedo io. –
-E come la vedi tu?-
-Come uno dei mezzi migliori per uscire vivi da tutta questa merda che ci troviamo intorno ogni giorno. Solo che non tutti prendono sul serio l’arte e la considerano un bel passatempo, si sbagliano. Ci sono un sacco di stili nell’arte ognuno di questi può venirci in aiuto in un modo o nell’altro, bisogna solo capire come.-

Voglio trovare la mia arte. Voglio trovare la mia salvezza.
Zacky parla del so handicap come una delle cose che più gli sono state utili nella vita. Quando gli chiedo il perché mi risponde con una semplicissima frase che mi entra dentro e si va a nascondere in qualche posto dal quale non riuscirò più a estrarla.
La cecità mi ha salvato da una vita superficiale e senza una ragione per cui lottare.
La cecità lo aveva salvato da una vita monotona e senza senso. Mi sono reso conto che la monotonia mi stava togliendo tutto quello che aveva Zacky. Mi stava risucchiando in un vortice mortifero e doloroso.

Ad ogni azione corrisponde una azione uguale e contraria.

Non ho mai capito questa frase fino in fondo. Penso che non la capirò mai fino in fondo.
Ho provato con gli strumenti musicali, con il canto. L’azione uguale e contraria? Sono stonato e non portato per gli strumenti principalmente usati nel genere di musica che ascolto.
Ho incontrato il pianoforte però. Azione uguale e contraria? Ho trovato la mia arte. Non so se si può dire che sia un’azione uguale e contraria, ma sono riuscito a trovare la mia salvezza da questa vita superficiale e senza una ragione per cui lottare.

-Mio padre non ha mai voluto che io studiassi arte. Almeno uno della famiglia doveva portare avanti la tradizione e lavorare nell’azienda di famiglia. I miei fratelli sono scappati di casa ed essendo gemelli ai 18 sono volati in Spagna da mia nonna. Mia madre non voleva che facessi le cose per obbligo e mi ha sempre appoggiato. Quando ho perso la vista per lei dovevo tornare a casa e non fare nulla. Non l’ha presa bene all’inizio ma adesso ha capito che sono una persona come tutte le altre e che posso portare avanti una vita normale. I miei fratelli mi hanno fatto visita qualche volta, e si sono preoccupati, non eccessivamente come mia madre ma lo hanno fatto. –
-Tuo padre?-
-Beh, lui, non lo so, pensa che adesso diventerò un fallito. La verità è che il fallito è lui. Il lavoro e la routine lo hanno portato ad essere un persona con la mentalità chiusa e il cuore duro.-

Le persone si migliorano spesso, è quello che ho cercato di fare io. Ho trovato la mia arte e sto imparando a capire il  corpo di ogni singola persona più a fondo e a usare le mie capacità per aiutarle.
Il mio rapporto con Zack cresce e diventa ogni giorno più forte, ora è mio amico.
Sono riuscito a spronarlo a farsi dei nuovi amici, domani ha un appuntamento con una certa Jennifer. Sono molto contento per lui, sarà un ottimo cavaliere.
Sono contento anche per me.
Finalmente guardo il mondo con gli occhi di chi non vede.